È possibile rimanere ad abitare nella casa di famiglia dopo la morte del partner?

In caso di morte del coniuge l’art. 540 del Codice Civile italiano riconosce al coniuge superstite il diritto di abitazione (diritto reale minore) della casa familiare.

Questo diritto garantisce al coniuge superstite la permanenza nella casa familiare anche se la proprietà dell’immobile passa ad altro erede oppure eventualmente ad un creditore del defunto.

In maniera del tutto speculare la legge Cirinnà (L. n. 76/2016) ha previsto una specie di “diritto di abitazione sulla casa familiare”, anche se limitato nel tempo, al partner del defunto unito civilmente ricalcando, quindi, la disciplina dell’art. 540 Cod. Civ..

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Diritto di abitazione per coniuge e partner

La legge ha dunque previsto il diritto di abitazione (diverso), in passato riconosciuto solo al coniuge unito in matrimonio, anche al partner unito civilmente, alla sopravvenuta morte del partner proprietario della casa oggetto della convivenza.

La norma, infatti, così prescrive: comma 42 della Legge 20 maggio 2016, n. 76 “Salvo quanto previsto dall’articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni”.

La legge 76/2016 risulta, infatti, applicabile esclusivamente a quei rapporti di convivenza che rispettino i requisiti di forma prescritti per il contratto di convivenza di cui ai commi 50 e 51 dell’art. 1.

Diritto di abitazione per le coppie conviventi

Cosa accade invece alle coppie solo conviventi (c.d. more uxorio) che non hanno stipulato nessun patto di convivenza?

Nel caso di specie non esiste una regolamentazione normativa.

A colmare il vuoto legislativo è, però, intervenuta la giurisprudenza.

La Suprema Corte di Cassazione partendo dal presupposto che la convivenza more uxorio è una formazione sociale idonea a dare vita ad un vero e proprio consorzio familiare, riconosce in capo al convivente di fatto una detenzione qualificata dell’immobile destinato a casa familiare.

Tale detenzione qualificata del convivente more uxorio, tuttavia, risulta esercitabile ed opponibile ai terzi finchè permanga il titolo da cui deriva, ossia finché perduri la convivenza more uxorio: venuto meno il titolo, per cessazione volontaria della convivenza, o in seguito al decesso del convivente proprietario dell’immobile, viene meno anche la detenzione qualificata sull’immobile stesso.

La sentenza n. 10377, pronunciata dalla Corte di Cassazione in data 27 aprile 2017 così afferma “al momento del decesso del proprietario dell’immobile, il convivente more uxorio di quest’ultimo non può restare ad oltranza nell’appartamento in cui ha vissuto con il convivente: il diritto a restare nella abitazione non può estendersi oltre il tempo ragionevole per cercare una nuova sistemazione.

In conclusione

In conclusione, dunque, in caso di matrimonio il coniuge superstite ha il diritto vitalizio di abitare la casa coniugale, a prescindere dalle eventuali disposizioni testamentarie di segno contrario, ma non può cedere questo diritto personalissimo a terzi.

In caso di unione civile si applica la legge 76/2016 (c.d. Cirinnà) che prevede un diritto di abitazione di due anni sulla casa di proprietà del convivente deceduto per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.

Se non è stipulato alcunché la convivenza è more uxorio ed il convivente superstite ha diritto a restare nella abitazione soltanto per il tempo ragionevole necessario per cercare una nuova sistemazione.

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